Quel 29 dicembre del ’73, con un lungo sospiro di rassegnazione, abbandonai il pensiero del ragazzo della pasticceria e mi apprestai a gustare le piccole libertà che avevamo conquistato, come sistemarci in sala da pranzo in un tavolo da sole e andare e venire a nostro piacimento, sfuggendo alle strette maglie del controllo genitoriale. I nostri famigliari ci guardavano a distanza, pronti a ricondurci sulla diritta via in caso di bisogno.
Il mattino dopo, alle sette in punto, la mia amica Luisa era già sveglia e ci buttò letteralmente giù dal letto, e noi, che speravamo di dormire sino a mezzodì, fummo costrette ad alzarci, a imbacuccarci e a prepararci per l’appuntamento nella hall con l’istruttrice di sci.
Una rapida colazione poi l’incontro con il nostro gruppo di sciatori e via alla fermata dell’autobus; l’addestramento era previsto sulle piste che partivano a oltre duemila metri di altezza. Il viaggio non era finito, perché avremmo dovuto prendere una funivia che ci avrebbe condotti ancora più in quota, su un’altura da cui partiva una bella pista.
Dopo la solita coda, impacciati dagli sci e dalle racchette, riuscimmo a entrare e a sistemarci vicino al finestrino nella parte anteriore della funivia; eravamo stretti e non c’era spazio per muoversi. Udii parlottare alle mie spalle e sentii l’attacco di uno sci spingermi dolorosamente nella schiena.
Cercai di spostarmi, poi di spingere via lo sci, poi emisi un lamento, infine mi girai e stavo per aggredire qualcuno quando incontrai uno sguardo conosciuto: il proprietario dello sci era proprio il ragazzo che avevo incontrato in pasticceria il giorno prima.
